In un’agenzia immobiliare di Chicago, quattro venditori vengono messi in competizione: chi riuscirà a firmare più contratti riguardanti certi terreni della Florida avrà in premio una Cadillac, mentre gli ultimi due classificati saranno licenziati. Ha così inizio una lotta senza esclusione di colpi. Cene al ristorante cinese, tentativi di persuasione e di depistaggio, entusiasmo momentaneo e repentino sconforto, tutto è lecito per procacciarsi un cliente: dalla maldicenza all’intrigo, dalla lusinga all’ipnosi. Sino a che le cose precipitano, quando qualcuno mette a soqquadro l’agenzia per rubare i contratti più importanti. Premio Pulitzer nel 1984 e già messo in scena l’anno seguente dal Teatro di Genova, Glengarry Glen Ross è un testo sempre attuale e di grande coinvolgimento emotivo. Con linguaggio crudo e immediato, David Mamet (classe 1947) riporta in primo piano il mondo di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, ma lo rappresenta ormai inesorabilmente prigioniero di un eterno presente: un mondo senza donne e senza famiglia, in cui ciò che conta è solo il coinvolgimento totale nella vendita, l’investimento emozionale dell’esperienza, l’aggressività dell’approccio e il virtuosismo dell’arte della persuasione. «L’America è un paese fondato sulle vendite», ha scritto David Mamet. «La compagnia della Baia di Hudson vendette l’America agli inglesi; le compagnie terriere vendettero l’Ovest a quelli dell’Est: la crescita dell’America si è sempre basata sul piccolo commercio di risorse naturali. È stato soltanto quando queste risorse (terre libere, lavoro degli schiavi, potere a poco prezzo, mercati coloniali) sono venute meno che il Sogno Americano è crollato. Questo è il vero problema dei venditori di Glengarry Glen Ross.
Romance
Giulio, sentendosi ormai anziano, desidera riprendere i contatti con il figlio Andrea, che non vede da anni, e lo invita a trascorrere qualche giorno in una baita di montagna dove si è ritirato. Tra loro non vi è mai stato nulla in comune e inizialmente l’incontro è imbarazzante per entrambi. Presto i rancori e le incomprensioni si stemperano e i due uomini cominciano a entrare in confidenza, a parlarsi, a riflettere sulle proprie esperienze. Giulio ha poco da narrare o da insegnare: la moglie è malata, ricoverata in un istituto e lui non ha mai avuto il coraggio di andare a rivederla; ha avuto una lunga relazione con un’altra donna e adesso che i suoi amici sono quasi tutti scomparsi, si è ritirato a vivere in solitudine. Andrea gli oppone una immagine di vita efficiente e positiva: il matrimonio, le figlie, il guadagno, il lavoro. Ma l’incontro col padre lo costringe a ripensare alle ipocrisie della sua vita: il rapporto con la moglie in realtà va avanti per inerzia, il lavoro non è soddisfacente, la spasmodica ricerca di successo e di denaro domina le sue inconcludenti giornate. Dopo aver passato qualche giorno insieme, ritrovando l’affetto reciproco, i due si lasciano tornando ciascuno al proprio mondo, con qualche ipocrisia in meno e con un’esperienza in più.
Via Montenapoleone
“La Bellezza, l’Eleganza, l’Erotismo e il Denaro” è la frase di lancio di Via Montenapoleone, sorta di sequel di Yuppies che vorrebbe descrivere in maniera approfondita la Milano anni Ottanta, tra modelle, funzionari di televisioni private, socialisti rampanti e politici corrotti. Il film è ambientato nella famosa via di Milano e si sofferma su esemplari di varia umanità, raccontando la vita di modelle, playboy, ricche borghesi annoiate, fotografe d’assalto e gay tormentati da dubbi e incertezze. Luca Barbareschi è un critico cinematografico gay, Valentina Cortese è una madre nobile con villa al lago, Carol Alt è una bellezza impossibile e René Simonsen non è da meno. Ci sono anche Fabrizio Bentivoglio e Paolo Rossi, che realizzano due caratterizzazioni di personaggi della Milano da bere. E naturalmente Van Wood canta Via Montenapoleone, leitmotiv della pellicola, proprio a inizio film.