Sogno di un uomo ridicolo

L’opera narra di un sogno che il protagonista fa all’età di quarantasei anni, probabilmente in uno dei suoi momenti di profonda e tragica introversione. Convinto ormai che tutto è indifferente e meditando il suicidio, acquista una rivoltella e la carica; tuttavia, non si spara subito, ma ripone l’arma in un cassetto, aspettando il momento giusto per compiere l’ultimo atto: infatti, consapevole che tutto gli è ormai indifferente, pretende che almeno l’ultima azione della sua vita, il suicidio appunto, venga compiuta in un preciso istante in cui avverte che non proprio tutto gli risulta indifferente. Una notte di novembre il protagonista prende la decisione di togliersi la vita, dopo aver fissato in uno squarcio di cielo limpido una stella lucente che sembrava suggerirgli (pur non comprendendone il perché) proprio questo terribile atto. Dopo aver preso la sua decisione s’imbatte in una bambina che piange disperata e che invoca il suo aiuto; sua madre sta per morire e nessuno corre in loro soccorso. Ma il protagonista la scaccia con brutalità e con l’ostentata indifferenza di chi, avendo deciso di farla finita, non vuole minimamente preoccuparsi dell’altrui sofferenza. Così torna alla sua abitazione, una bettola piena di ubriaconi e continue risse. Nella sua camera comincia a riflettere sugli accadimenti occorsigli, accorgendosi d’aver provato compassione e pietà per la povera bimba incontrata per strada. Così la compassione provata per lei lo distrae dal suo proposito autodistruttivo, tanto da pentirsi e vergognarsi del suo atteggiamento. A questo punto giunge ad una sua “Visione della Verità” attraverso un sogno. Nel sogno si suicida per davvero, sparando un colpo al cuore, e senza dolore si crea un immenso buio attorno a sé, vivendo in ogni aspetto la sua morte (le persone che accorrono, la sua sepoltura) che avverrebbe nella palazzina in cui vive. Poi, grazie ad un essere misterioso dall’aspetto umano (una sorta di angelo) viene trasportato nell’immensità dell’universo, lontano dall’odiata Terra, passando accanto a Sirio. Nel corso del viaggio Fedor si rende conto che anche dopo la morte continuiamo ad esistere, anzi siamo costretti a rinascere in qualche altro angolo remoto dell’universo. Mentre torna a rimembrare il dramma della povera bambina, il misterioso compagno di viaggio esclama: Vedrai Tutto. Quindi l’angelo lo abbandona, mentre Fedor rinasce in una nuova Terra molto simile alle condizioni primordiali descritte nelle sacre scritture, come una sorta di età dell’Eden. In questo Eden gli uomini vivono senza scienza razionale, parlano e dialogano tra di essi come con gli alberi, le piante e gli animali. Non esistono relazioni burocratiche, sfide, invidia, malizia o gelosia, e i figli sono figli di tutti e tutti hanno più madri e più padri contemporaneamente: tutta la comunità umana è un’unica grande famiglia. Gli abitanti della nuova terra non hanno luoghi di culto come templi e chiese, ma sono coscienti della vita eterna così come hanno “una continua coscienza dell’universo intero” e credono che la morte non sia altro che una porta che apre ad una comunicazione ancora più vasta e completa con tutto il Creato. Fedor continua a sognare divenendo sempre più convinto che non stia solo sognando, ma vivendo in una vera e propria “altra dimensione”. La sua presenza, però, altera la situazione paradisiaca e trasmette agli uomini di questa nuova terra il “bacillo” della corruzione: la menzogna, la malizia, la sensualità, la vanità, la gelosia e l’invidia, che favoriscono lo spargimento del primo sangue. Sorgono così le idee di onore e le coalizioni contrapposte, nonché il seme della vergogna della nudità. Si iniziano anche a parlare diverse lingue, e dopo la conoscenza del dolore e del piacere, nasce pure la necessità della pena di morte per i criminali violenti. Da allora questi uomini iniziano a credere che la scienza li avrebbe resi saggi poiché avrebbero riscoperto le leggi della felicità. Dopo aver compreso che la sua stessa presenza ha corrotto “l’umanità sosia”, chiede di farsi uccidere estirpando così la causa prima della corruzione. Ma nessuno crede nelle sue parole. A quel punto si risveglia dal sogno. Dopo quel sogno Fedor decide di dedicare la propria vita alla predicazione della Verità, convinto di averne avuto la perfetta visione e sicuro che il Male, la corruzione e la degenerazione non possano essere la condizione normale dell’umanità: “Quella bambina poi l’ho rintracciata… E mi metterò in cammino, mi metterò in cammino!”.

I divorzi

Le commedie alfieriane, meno note delle tragedie, rappresentano l’ultima fatica letteraria di Alfieri, in particolare “Il Divorzio”, la più realistica delle sei commedie, “tutta moderna ed italiana” come il poeta scrisse nel settembre del 1800. E’ la satira di un matrimonio di interesse nel quale il contratto nuziale, secondo il costume del tempo, è circondato da tante clausole da lasciar libera la moglie da ogni soggezione al marito e da rendere il matrimonio apparente un vero divorzio. Nella Genova di fine ‘700 si narrano le vicende di Agostino Cherdalosi, uomo d’indole onesta, ma la cui avarizia lo rende odioso alla moglie Annetta, donna scostumata e superba. La figliuola Lucrezia è avvenente, ma civetta, mal educata, disamorata e di pessimo carattere; seguendo le orme della madre, amoreggia con tutti coloro che capitano in casa sua. Intorno a costoro si muovono gli altri personaggi: un promesso sposo ingenuo e sprovveduto, i cicisbei, il prete di casa che aiuta la giovane negli intrighi amorosi, un avvocato disonesto ed un medico dello stesso stampo ed infine l’anziano pretendente cui si ricorre strategicamente per un matrimonio di comodo ed opportunistico. Il tono farsesco dell’Alfieri è carico di significati morali, di aperti sdegni, di condanne di costume, di insofferenza verso una società che gli appare mediocre persino nel vizio, riflesso della decadenza degli ideali politici.

Anfitrione

Il soggetto è tratto dall’omonima commedia di Molière, che Kleist rimaneggia fra il 1806 e il 1807 e da cui lo scrittore prende alcune parti quasi alla lettera. La leggenda di Zeus, che per riuscire a possedere la bella Alcmena le si avvicina sotto le sembianze del marito Anfitrione, appartiene al genere della commedia degli equivoci. Kleist però stravolge questo quadro di riferimento per rappresentare in maniera drammatica il legame tra ciò che è e ciò che appare. Riprendendo l’Amphitryon di Molière, Kleist ne trae, aggiungendovi due sole scene completamente nuove, una commedia fra le più “kleistiane”. Zeus, stanco di essere soltanto dio, scende dall’Olimpo per sottoporre ad un crudele esperimento Alcmena. Egli vuole possedere la donna non da dio o da animale ma da uomo, come un marito innamorato possiede la moglie innamorata.

Da Corleone a Brooklyn

In occasione dell’assassinio di Salvatore Santoro, avvenuto a Roma, il commissario Giorgio Berni, che si occupa del caso, viene inviato a Palermo per collaborare con il commissario locale Danova poiché si hanno buone ragioni per sospettare che si tratti di un delitto a sfondo mafioso. Intanto il tenente Sturges della polizia di New York ferma un uomo che dice di chiamarsi Vito Ferrando, sospettato di traffico di droga e senza permesso di soggiorno. Il rapporto che Sturges invia a Palermo dichiara che Ferrando è in realtà il boss mafioso Michele Barresi, più volte scampato alla giustizia. Barresi viene quindi scagionato dalle accuse per il delitto di Roma però, nel frattempo, altre persone vicine a lui sono state uccise. Si tratta di Liana Scala, la sua compagna, e Francesco Santoro. Nel conflitto a fuoco seguito al delitto, uno degli assassini, Salvatore Scalia, ex uomo di fiducia di Barresi e fratello di Liana, è caduto nelle mani della polizia. Giorgio Berni ottiene dai suoi superiori il permesso di trasferire lui stesso il prigioniero in America perché con la sua testimonianza possa incastare Barresi. Il viaggio si presenta pieno di insidie anche perché i mafiosi tentano di eliminare il pericoloso testimone. Berni, dopo essersi nascosto a casa della sua ex moglie Paola, riesce ad arrivare a New York dove non può impedire la morte di Scalia che però ha lasciato una testimonianza scritta.